
Dolzan "L'uomo che insegnò al suo culo a parlare (da W. Burroughs)"cm180xcm165, acrilico su tela, 2006.
"Uno dei prototipi di Dio: un mutante ad alta potenzialità, neanche preso in considerazione per una produzione di massa. Troppo strano per vivere e troppo raro per morire."
Pensando allo scritto introduttivo per questa nuova mostra di Paolo Dolzan, la prima cosa che mi è venuta in mente è la sequenza di traslochi che l'artista ha affrontato in questi ultimi anni. Un particolare questo non irrilevante, se è vero che un luogo può influenzare il comportamento di un individuo, così come quest'ultimo, se dotato di forte personalità, finisce per rendere lo spazio in cui opera specchio fedele del proprio essere. Nell'ultimo lustro Dolzan ha allestito e smobilitato il proprio studio per ben tre volte. Prima il trasferimento in un bilocale vicino alle mura della città, preso in affitto da un matusa Macreone, al quale si accedeva arrampicandosi su una ripida scala che toglieva il respiro, una vera e propria salita al Calvario, soprattutto d'estate. La seconda volta, sempre in centro, a due passi dalla Torre dell'Aquila, in un interrato piuttosto umido e inospitale, simile ad una cripta, dove, come in precedenza, pericolosi scalini attendevano il visitatore desideroso di rompersi l'osso del collo. Infine, l'arrivo - forse l'ultima tappa? - in un vecchio mulino, da lui stesso poi restaurato, futuro teatro di chissà quali scorribande di questo paladino dell'inattuale.
Non si può certo dire che Dolzan sia afflitto da quella depressione di cui soffriva l'integerrimo capitano del Woyzeck di Buechner, al quale, osservando la ruota di un mulino, capitava di cadere in un'improvvisa e profonda malinconia.
Il tempo che passa non preoccupa né scalfisce l'originaria purezza della sua creatività e la sua arte si arricchisce, giorno dopo giorno, di nuovi aspetti, per questo è limitativo definire Dolzan un semplice pittore, egli è molto di più: scultura, installazioni, performance, cortometraggi, sono tutti territori da esplorare e, possibilmente, rinnovare. Un universo scoppiettante e irriverente il suo, capace di scuotere dalla base lo spirito annoiato di molti avventori del gusto contemporaneo, ormai assuefatti ad un'arte edonistica e autoreferenziale, che cerca invano di affermarsi utilizzando vacui giochi solipsistici. Quest'artista ama, al contrario, mostrarci l'intima bellezza del "bestiame della miseria", dello squallore quotidiano: un impiegato - o forse è meglio dire "impiagato"? - reso invalido dalla consuetudine, uno storpio permanente, schiavo dello stipendio e degli orari di lavoro, incollato ostinatamente alla propria sedia ergonomica; la nascita di un bambino, un evento di per sé lieto, rappresenta come uno spasmo di dolore atroce, condito da generosi effluvi repellenti;ed ancora: un uomo, preda di strane allucinazioni, ripreso in lieta conversazione con le proprie natiche. Nella crudezza di queste imagini non c'è, tuttavia, cattiveria o disprezzo verso quest'umanità; possiamo, anzi, ravvisare un fondo di pietà, di comprensione e persino d'affetto nei confronti di quanti, conoscendo l'esito scontato della battaglia (si tratta sempre di una sconfitta), hanno rinunciato a combattere, accettando in questo modo un destino di servilismo e rassegnazione. Esiste per queste creature la possibilità di un riscatto? Forse si. Ed è proprio l'artista che può loro concederla, sublimando con la propria opera il grigio sentire di questo gregge obbediente del nuovo millennio.
Gauguin intitolò uno dei suoi celebri dipinti "Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?". Di fronte al realismo disarmante delle opere di Dolzan, altre domande si pongono: "In che razza di mostro o lupo mannaro mi sto trasformando? Sono regredito allo stato di quadrupede selvaggio? Questo è solo un sogno o, risvegliatomi domani, sarò anch'io parte di questo incubo per troppo tempo ignorato?".
Il testo che accompagnava il catalogo della mostra di Hannover si chiudeva con un sentito augurio che, a distanza di un anno, mi sento di rinnovare, citando le parole di Rabelais: "Non può il mio cuore senza riso vivere e, innanzi al duolo che mina e estingue, meglio è di riso che di pianto scrivere, ché il riso l'uomo dall'animal distingue. VIVETE LIETI".
Tommaso Decarli (estratto dal catalogo della mostra presso la galleria Argo, 2006)